25 luglio 2010

Borsellino: cerchiamo di capire cosa realmente accadde

Proviamo a prendere una lucida distanza dalle ridondanti parole di commemorazione, indispensabili e doverose o vacue e nauseanti, a seconda del sentimento che le muove, proferite in questi giorni su tutti i media, compresi quelli locali, per cercare di capire un pò di più fatti oggettivi ed incontrovertibili.

da L’Unità

Palermo, il Pm Gozzo: «Alcuni degli amici di Borsellino conoscono la verità»

di Nicola Biondo
«In Italia con le stragi di mafia c’è stato un golpe». A parlare è Nico Gozzo, procuratore aggiunto della procura di Caltanissetta dove è stata riaperta l’inchiesta sulla strage contro Paolo Borsellino e i cinque ragazzi della sua scorta.
Ha accettato di parlare a tutto campo. «Perché indagare sulla strage di via D’Amelio – spiega - è come usare una lente d’ingrandimento per vedere com’è diventato questo paese 18 anni dopo la morte di Paolo Borsellino». E allora vediamolo questo paese con gli occhi di un magistrato, giovane, garantista, che solo per un attimo non riesce a mascherare l’emozione quando ricorda gli ultimi giorni del giudice ucciso: «Ci sono persone che potrebbero darci spunti importanti sugli ultimi giorni della sua vita, ma purtroppo sono quelli che lo hanno tradito. Ciò che più mi addolora è che, in quei 56 giorni dopo Capaci, Borsellino ha sofferto la solitudine e il tradimento».
Dottor Gozzo, com’è l’Italia vista da Caltanissetta, con gli occhi di chi indaga sulla strage di via D’Amelio e sulla trattativa Stato-mafia?
«È un paese brutto, capace di dare tutto il peggio di se stesso. Un paese dove non esistono buoni e cattivi, dove il potere corrompe tutto o quasi. L’Italia migliore è quella dei cittadini senza potere, quella delle migliaia di persone che a Caltanissetta sono scese in piazza per non farci sentire soli ed esposti, come se il nostro lavoro non servisse niente».
La vostra procura sta riscrivendo la storia della “strage Borsellino” a partire dalla dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. È emerso che Vincenzo Scarantino, sulle cui dichiarazioni si sono fondate due sentenze definitive, è un falso pentito e che fu addestrato da uomini della polizia. È la solita vecchia Italia dei depistaggi?
«Spatuzza si è assunto la responsabilità di aver rubato lui l’auto servita per l’attentato. E sta fornendo ulteriori elementi, ma ovviamente non posso parlare dell’indagine in corso. Di certo, le sue dichiarazioni hanno reso inevitabile un riesame dei momenti successivi alla strage. Attualmente la nostra procura è impegnata su tre fronti: da una parte trovare i riscontri a quanto dice Spatuzza, molti dei quali sono - è ormai noto - di segno positivo. Dall’altro, dovremo fornire alla Procura generale gli elementi per rivedere le posizioni di alcuni dei condannati. Infine, affrontare la questione delle responsabilità esterne a quella mafiosa».
Anche nella “strage di Borsellino” come in tutte le altre, appare l’ombra del depistaggio istituzionale. Avete interrogato tre dei dirigenti di polizia che gestirono Scarantino...
«Non ci sono dubbi che la morte di Borsellino fu voluta da Cosa Nostra. Come appare chiaro che qualcosa non andò per il verso giusto durante le indagini. Cosa sia intervenuto è l’oggetto della nostra inchiesta. Non posso dire nulla sugli interrogatori, ma è chiaro che analizzeremo con grande attenzione le parole di tutte le persone che abbiamo sentito».
Non c’è il rischio che eventuali reati connessi al depistaggio dell’indagine siano già prescritti?
«Mi pare presto per parlare di argomenti che affronteremo, eventualmente, al termine dell’indagine sull’eventuale depistaggio».
Quali sono i buchi neri della strage, le domande senza risposta?
«Quelli che lei chiama “i buchi neri” riguardano il commando che aspettava il giudice in via D’Amelio e l’uomo che ha premuto materialmente il pulsante del telecomando del massacro. Purtroppo si sono persi molti pezzi della ricostruzione. Penso al luogo dove si piazzarono gli attentatori, vicenda sulla quale le indagini hanno lasciato a desiderare (vedi l’Unita> di ieri, ndr), e alle tante testimonianze che sono venute a mancare».
A cosa si riferisce?
«Lo riassumo facendo io alcune domande: perché nessun pentito ha mai raccontato la fase esecutiva dell’attentato? Perché l’uomo che fornisce il telecomando per la strage si suicida in carcere? C’erano due squadre in azione quel 19 luglio: una che doveva intervenire presso la casa del giudice, l’altra, quella che poi ha compiuto la strage, pronta a operare in via D’Amelio. Da chi erano composte queste due squadre e come hanno saputo, con sicurezza, che il giudice sarebbe andato lì quella domenica?».
Reticenze dei mafiosi, ma anche di uomini di Stato.
«È così. Forse a intralciare le indagini sono state analisi errate. Ma non mi sento di buttare la croce su chi ha indagato prima di noi. Il pubblico ministero è cieco e sordo, nel senso che possiamo vedere e sentire solo tramite la polizia giudiziaria. Quanto alla pretesa “anomalia” di due stragi così ravvicinate, in realtà - purtroppo - non sono per Cosa Nostra una rarità. Poi è ormai chiaro che la morte dei due giudici è stata il risultato di un’unica strategia mafioso-terroristica per far capitolare lo Stato, per farlo scendere a patti».
Dunque Borsellino muore per la trattativa?
«Muore anche per la trattativa. E ci sono molte persone che lo potrebbero raccontare. Alcune di esse vanno ricercate tra alcuni dei cosiddetti “amici” di Paolo Borsellino. La cifra essenziale della sua morte è la solitudine e il tradimento. Una cosa orribile per un uomo come lui che aveva bisogno di voler bene, di dare e ricevere fiducia».
Perché le indagini sulle stragi fanno tanta paura? Berlusconi ha detto che è un complotto contro di lui, che si tratta di “cose vecchie”.
«Vorrei rassicurare il Presidente. Se parla così, credo sia mal consigliato. Non c’è alcun complotto. Lo posso dire con serenità: a partire dal 1997 ho archiviato più di un’inchiesta che lo riguardava. Ho l’impressione che qualcuno cerchi di alimentare il risentimento di Berlusconi contro la magistratura per ottenere una compressione della democrazia nel nostro paese».
Lei è stato pubblico ministero nel primo processo contro il senatore Marcello Dell’Utri. Si aspettava la condanna anche in secondo grado?
«Assolutamente sì. Purtroppo, in questa vicenda, ci sono silenzi pesanti che fanno pensare che certi rapporti non siano solidi come vengono dipinti. Ad esempio, il silenzio di Silvio Berlusconi quando, nell’ambito dell’inchiesta Dell’Utri, gli chiedemmo conto del rapporto con il suo collaboratore. In quel caso decise di non difendere davanti ai magistrati il socio di una vita».
Non ci dovrebbe essere un dovere politico e morale di chiarire?
«Chi indaga sulla mafia, sulle stragi, ha un desiderio: che il sistema politico sia autorevole, che non sia esposto a ricatti. Credo che, dopo la sentenza Dell’Utri, il presidente del Consiglio, che è anche il mio presidente, abbia un’occasione: lasciare finalmente il senatore al suo destino e dire finalmente cosa è successo nei 22 anni in cui Dell’Utri ha lavorato per lui e le sue aziende e, nello stesso tempo, con la mafia. Quello che nessuno può fare è dire ai magistrati di Palermo e Firenze, competenti sulle indagini post-1993, che la magistratura non ha il dovere di continuare ad indagare».
La questione morale non riguarda solo la politica, ma investe, come emerge dall’inchiesta sulla cosiddetta P3, anche la magistratura.
«Nel passato alcuni uffici giudiziari furono definiti “porti delle nebbie” dove sempre si archiviavano le inchieste più scottanti. L’abitudine di certi magistrati di frequentare ambienti politici, imprenditoriali o centri di potere più o meno occulti non è venuta meno, anzi. Purtroppo nessun ambiente è immune per definizione da germi corruttivi. È per questo che chi indaga si trova di fronte ad un paese in chiaroscuro dove il confine tra buoni e cattivi è sempre più labile. È il caso anche di un certo modo di fare giornalismo».
È una fissazione di alcuni o davvero in Italia c’è il rischio che la magistratura venga asservita alla politica?
«La questione centrale non è solo l’autonomia della magistratura, ma quella della polizia giudiziaria che deve essere indipendente da centri di potere politico ed economico. Le indagini sul campo vengono fatte dalla Pg e se questa subisce condizionamenti è davvero finito tutto».
Lei di recente, commentando notizie di stampa sulle inchieste per la strage di via D’Amelio, ha usato parole molte dure. Queste: «Chi scrive certe cose fa il gioco di chi in Italia ha voluto, con le stragi di mafia, fare un golpe».
«Sono convinto che l’Italia è un paese di patti e ricatti, dove ci sono persone che utilizzano la stampa con fughe di notizie o la propalazione di cose non vere. Se alcuni giornalisti avessero il coraggio di ammettere di essere stati contattati, forse usati, da oscuri personaggi, e ci dicessero chi sono, arriveremmo più facilmente alla verità sulle stragi. C’è una campagna di disinformazione in corso, uno schema che riappare ogni qualvolta le indagini sfiorano i livelli alti. L’obiettivo è sabotare le indagini con notizie artefatte, costruite in laboratorio. So di apparire impopolare con questa mia presa di posizione oggi che si discute del Ddl intercettazioni e del bavaglio alla stampa. Ho un grande rispetto del lavoro dei giornalisti, ma un certo modo di fare giornalismo può essere anch’esso una forma di bavaglio, una distorsione della realtà, un intralcio alla giustizia».
È uno scenario da brivido: trattative, stragi, ricatti e depistaggi a mezzo stampa.
«In Italia tra il ‘92 e il ‘93 si è consumato un golpe. Un sistema politico è stato spazzato via con le stragi. Ci sono state trattative e lo confermano ufficiali dei Carabinieri. Questo è un fatto già accertato da sentenze. Ci accusano di ascoltare uno come Massimo Ciancimino, ma lui è stato indubbiamente testimone di alcuni fatti. Saremmo stati pessimi investigatori se non avessimo ascoltato la sua versione dei fatti».
Però ci sono state perplessità e anche qualche attrito con la Procura di Palermo.
«Non c’è nessuna spaccatura: è normale che, anche in una stessa Procura, ci siano modi diversi di vedere una fonte di prova. È la modalità delle “produzioni documentali”, diluite nel tempo, che può condurre ad una più difficile utilizzazione delle prove. Il nome di Massimo Ciancimino come testimone di quella vicenda non lo inventano i magistrati, ma gli stessi ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno, che incontravano suo padre. Alla fine valuteremo l’attendibilità del suo contributo. Ma si ricordi che in questa storia non ci sono né buoni né cattivi».


da L’Unità

Omertà di Stato

di Rita Borsellino
Sono trascorsi diciotto anni dalla strage di via D’Amelio. Diciotto anni da quella di Capaci. Diciassette dalle bombe di Milano, Firenze e Roma. E ancora oggi non conosciamo la verità su quanto accaduto in quegli anni. Così come non sappiamo la verità sulle morti di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, o perché Vincenzo Scarantino si sia autoaccusato di aver procurato l’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta. La lista dei misteri potrebbe continuare ancora e a lungo. Di sicuro, sappiamo che lo Stato che commemora non è ancora riuscito a garantire la giustizia per i suoi giudici, i suoi poliziotti, i suoi cittadini assassinati. E sappiamo anche che c’è uno Stato che ha agito perché non si arrivasse alla verità sulle stragi di mafia, su un capitolo fondamentale della storia italiana. Lo sappiamo perché le cronache di questi anni ce l’hanno raccontato.
La narrazione ha proceduto a scatti, tra fughe in avanti e flash back, tra rivelazioni tardive e menzogne a orologeria. Eppure, da questo racconto scombinato è venuta fuori pian piano la storia di una guerra tutta interna allo Stato. E, come in tutte le guerre, ci sono stati morti e feriti, eroi e traditori, nemici travestiti da amici. Adesso che conosciamo il canovaccio, è giunta l’ora di dare nome e cognome ai protagonisti e alla comparse di questa vicenda, restituendo a ciascuno il proprio ruolo. È vitale conoscere i nomi di chi ha depistato le indagini sulle stragi. Capire, per esempio, perché attorno alle parole di un pentito “anomalo” come Vincenzo Scarantino si sia costruito il grosso delle prime indagini su via D’Amelio.
Bisogna ricostruire una volta per tutte quello che è successo subito dopo l’omicidio di Borsellino, dalla scomparsa dell’agenda rossa all’arresto di Totò Riina. C’è poi da chiarire il ruolo svolto dagli agenti di polizia Antonino Agostino e Vincenzo Piazza. Prima, è stato fatto credere che fossero morti per questioni private, poi che avessero partecipato nel ruolo di “cattivi” al fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone. Ci sono voluti diciotto anni perché scoprissimo che i due giovani poliziotti all’Addaura c’erano realmente, ma per proteggere il giudice e non il contrario. Più o meno il tempo che è stato necessario ad alcuni autorevoli personaggi della politica e delle istituzioni per recuperare la memoria e parlare. Hanno parlato della presunta trattativa tra Stato e mafia e del fatto che Borsellino fosse a conoscenza di questa trattativa. Non mi è del tutto chiaro il motivo per cui ci siano voluti tutti questi anni per ricordare fatti così importanti. Di sicuro, chi sa tutta la verità, oggi, non ha ancora aperto bocca.
Nell’attesa, sarebbe bene che lo Stato (il governo o chi per esso) chiarisca ai suoi cittadini alcune anomalie emerse negli ultimi mesi. Mi riferisco, innanzitutto, al deposito di Bagheria dove sono state lasciate marcire, tra muffa ed escrementi, le carte del “Gruppo Falcone-Borsellino”, ossia della prima indagine su Capaci e via D’Amelio, la stessa che ha ruotato intorno alle parole di Scarantino.
Oggi, su quelle carte la magistratura sta lavorando alacremente per comprendere, per esempio, l’effettiva rilevanza delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza e di Massimo Ciancimino. Ebbene, com’è possibile che uno Stato che vuole combattere la mafia possa permettere che topi e tarli facciano scempio di documenti così delicati e importanti? Com’è possibile che da quei documenti siano scomparsi gli identikit dei presunti killer di Capaci? Com’è possibile, poi, che quando i procuratori hanno chiesto ai servizi segreti le carte su Vito Ciancimino, si siano visti recapitare solo ritagli di giornale?
Fatti del genere possono accadere solo per due ragioni: o per dolo, o per negligenza. In entrambi i casi, ci sono dei responsabili. E a questi lo Stato deve dare nomi e infliggere sanzioni. Ma nulla è stato ancora fatto.
Di contro, l’ignavia istituzionale è venuta meno quando si è trattato di concedere la protezione a Spatuzza. Le tre procure (Palermo, Caltanissetta e Firenze), che stanno riaccendendo i riflettori sui misteri che hanno avvolto le stragi, credono a Spatuzza. Il Viminale, invece, ha trovato un cavillo per negargli il regime di protezione concesso ai pentiti. Come ha ben scritto Attilio Bolzoni, è come se gli avessero messo un sasso in bocca. E che dire, sempre per restare in tema di decisionismo politico, delle gravi ripercussioni sulle indagini che potrebbe avere la cosiddetta “legge bavaglio”? Senza dimenticare l’esultanza con cui, illustri esponenti della maggioranza e del governo, hanno salutato la condanna del senatore della Repubblica, nonché l’uomo chiave nella costruzione di Forza Italia e del Pdl, Marcello Dell’Utri, il quale, secondo la sentenza, è stato per trent’anni, anche nel periodo delle stragi, in stretto contatto con i boss mafiosi, fornendogli persino protezione. Sono queste “azioni” che mi fanno dire con convinzione che c’è uno Stato che non vuole arrivare alla verità sulle stragi di mafia. Uno Stato che sulle tombe di Falcone e Borsellino preferisce portare corone di fiori. Ma non la giustizia.