“Riteniamo importante raccontarvi la storia
di questo processo e dell’uomo che lo sta subendo: nel 2008 un maresciallo dei
carabinieri prende la sua macchina e, in un’operazione di polizia giudiziaria
antimafia, va a parlare con un confidente.” Comincia così la storia del
maresciallo dei carabinieri Saverio Masi.
Il racconto non è frutto dell’immaginazione
di una penna fantasiosa, ma è la cronaca di Salvatore Borsellino e Federica
Fabbretti, del Movimento delle Agende Rosse su un articolo pubblicato sul Fatto
Quotidiano il 7 ottobre 2013.
“Il maresciallo ha fretta e durante il
tragitto prende una multa. Mesi dopo arriva la contravvenzione e il carabiniere
in questione, dopo aver controllato le date, scrive una relazione che attesta
che la macchina privata era stata usata per motivi di servizio, vi allega una
lettera di accompagno di un suo superiore, e manda il tutto alla prefettura.
Poco dopo giunge al comando dei Carabinieri una richiesta di conferma che
accerti che il carabiniere in questione fosse veramente in servizio quel giorno
ma il suo superiore, invece di confermare, manda un avviso di notizia di reato
alla Procura competente e il carabiniere del nostro racconto viene rinviato a
giudizio e processato per i reati di falso materiale, falso ideologico e
truffa.
La Procura della Repubblica di Palermo
accusa il maresciallo di aver compilato una relazione falsa (si contesta la sua
effettiva presenza in servizio quel giorno), di aver falsificato materialmente
la relazione (la lettera di accompagno, invece di essere firmata dal superiore
del maresciallo, era stata siglata dal maresciallo stesso con l’aggiunta della
dicitura “APS”, assente per servizio, riferita al superiore) e di aver voluto
truffare lo Stato per farsi togliere una multa ottenuta non nell’esercizio delle
sue funzioni di pubblico ufficiale. Durante il processo i superiori del
maresciallo, dichiarano di non averlo mai autorizzato ad usare vetture private,
che l’uso di queste è di regola escluso dalle indagini di polizia giudiziaria.
Il maresciallo viene condannato in primo grado alla pena di otto mesi di
reclusione e al pagamento delle spese processuali.
Cosa c’è che non va in questo racconto?
In attesa che la Corte di Appello di
Palermo, presieduta dal giudice Daniele Marraffa, emetta la sentenza ci sentiamo
in dovere di evidenziare a chi legge alcuni elementi che ci appaiono quantomeno
singolari:
1) dagli accertamenti svolti (produzione di
un memoriale di servizio) e dalla sentenza di primo grado risulta che il
maresciallo fosse “comandato” nella data in oggetto per “indagini di polizia
giudiziaria”, cioè è appurato che fosse veramente in servizio;
2) l’avvocato del maresciallo, Giorgio
Carta, ha svolto indagini difensive con l’audizione di testimoni (anch’essi
carabinieri) che confermano l’uso ripetuto e continuativo di autovetture
private per indagini investigative – anche dagli stessi superiori del
maresciallo – e l’”ufficiosità” di questa procedura, con relativa assenza di
tracce di essa in documenti ufficiali. La Corte d’Appello ha respinto la richiesta
di acquisizione di queste testimonianze giudicandole, con l’appoggio della
procura, intempestive e irrilevanti;
3) l’avvocato del maresciallo ha chiesto al
Comando dell’Arma dei Carabinieri l’accesso ad atti quali i fogli di viaggio e
i memoriali di servizio (i cosiddetti “brogliacci”) compresi tra il 2000 e il
2008, che avrebbero confermato l’assenza di tracce scritte dell’uso di auto
private nelle varie indagini. La richiesta è stata rifiutata. Al che l’avvocato
ha fatto ricorso al TAR ed ha chiesto alla Corte di Appello di aspettarne la
sentenza. Altra richiesta rifiutata;
4) il maresciallo ha chiesto l’acquisizione
della copia del suo passaporto e di una relazione di servizio come prova della
mancata volontà di contraffare la nota di servizio con il nominativo del suo
superiore, nella quale era infatti apposta la scritta A.P.S. (assente per
servizio), seppur molto piccola, accanto alla sua sigla. Ennesima richiesta
rifiutata;
5) il procuratore generale Salvatore
Messina, nella sua requisitoria conclusiva, afferma: “…documenti e
testimonianze ci dicono che nessun ufficiale aveva mai chiesto al maresciallo o
lo aveva mai autorizzato ad usare il mezzo proprio per indagini di polizia
giudiziaria…”. Però contestualmente ritiene “intempestive” e “irrilevanti” le
acquisizioni di documenti che potrebbero mettere in dubbio quelle certezze. E
ancora sostiene che, relativamente alle possibili false testimonianze dei
superiori del maresciallo riguardo l’uso di mezzi privati, “se indagini in
questo senso si dovranno fare, si potranno fare in quei processi per falsa
testimonianza ai quali ha accennato la difesa”.
Questi sono i fatti. Poi ci sono delle
considerazioni che non possiamo esimerci dal fare, che riguardano l‘uomo dietro
alla divisa da maresciallo capo, che ha un nome e un cognome: Saverio Masi.
Quest’uomo ha investigato per anni la criminalità organizzata, prima la camorra
a Napoli e poi la mafia a Palermo, molto spesso utilizzando auto private,
pagando la benzina e le riparazioni necessarie di tasca sua; deve ancora
compilare decine e decine di richieste di rimborso che spettano ai carabinieri
che rimangono oltre un certo limite di ore lontano dalla città dove prestano
servizio, per un ammontare complessivo che supera di gran lunga i centosei euro
della multa da cui è scaturito questo processo penale. Rimborsi che Masi non ha
mai avuto intenzione di chiedere. Possiamo credere che sia diventato tutto ad
un tratto così attaccato ai soldi da commettere dei reati che gli avrebbero
fatto rischiare la destituzione da un lavoro che, per sua stessa ammissione,
ama? La seconda considerazione è relativa alla figura di testimone di Saverio
Masi che, depose il 21 dicembre 2010 nel processo contro il generale Mario Mori
e il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e che
deporrà nel da poco aperto processo per la trattativa Stato-mafia per riferire,
come si legge nella lista testimoniale della procura, sugli “ostacoli
incontrati nell’ambito della sua attività investigativa finalizzata alla
cattura di Bernardo Provenzano”.
Ma la considerazione più importante che ci
sentiamo di fare riguarda l’ipocrisia di uno Stato che costringe i suoi
servitori ad uscire fuori dalle “regole” (utilizzando, per esempio, autovetture
private per assenza di disponibilità o per ragioni di “sicurezza”) per
continuare ad arrestare latitanti e che poi li lascia al loro destino quando,
per una ragione o per un’altra, queste procedure ufficiose diventano oggetto di
azioni disciplinari o, peggio, penali.
C’è un articolo nel codice di procedura
penale italiano, il 603, che regola le modalità di istruzione dibattimentale e
nel suo comma 3 spiega come il giudice abbia il diritto e, soprattutto, il
dovere, di “rinnovare l’istruzione dibattimentale se egli la ritiene
assolutamente necessaria” e non ha limiti di tempo per fare ciò se non la
sentenza finale. Forse, visti gli elementi, le circostanze e la persona in
esame, sarebbe il caso di riflettere sull’applicazione di questo articolo, per
far sì che la legge si sovrapponga ancora una volta alla giustizia.”
Qui termina il racconto di Salvatore
Borsellino e comincia il nostro. Il cittadino portavoce andriese del Movimento
5 Stelle Giuseppe D'Ambrosio ha depositato un’interrogazione parlamentare al Ministro
della Difesa, sen. Roberta Pinotti, e al Ministro dell’Interno, on. Angelino
Alfano, per chiedere chiarezza sul caso.
Qui il testo dell’interrogazione
pubblicata.